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Sartori: «Ma quanto è laico, eminenza!»

Da "L'Espresso" del 29 settembre 2000. La pastorale del cardinale Giacomo Biffi letta da un politologo. Sul problema immigrati, è un uomo di Chiesa a dare una lezione ai ministri dello Stato

di Giovanni Sartori

La nota pastorale del 13 settembre dell'arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, è stata lanciata così dall'Ansa, la nostra massima agenzia di stampa: "Immigrazione. Biffi allo Stato: favorite i cattolici". Le agenzie di stampa devono, appunto "lanciare".

E di quel lancio sono stato un po' vittima anche io perché - subito intervistato telefonicamente - ho troppo precipitosamente risposto che «quella tesi non mi convince per niente». Che non mi convinca resta vero. Ma dopo aver letto l'intero testo del cardinale devo fare ammenda e desidero riconoscere che quel testo, nel suo insieme, fa onore al suo estensore.

Per una volta - mi succede oramai di rado - mi inchino.

Certo, l'ottica dell'uomo di Chiesa è diversa da quella del laico, e quindi da quella del sottoscritto. Il cardinale Biffi deve dare priorità alla sua fede, e perciò alla "buona religione". A me interessa, invece, la "buona società". Ma ferma restando questa differenza di fondo e di priorità, l'intervento del cardinale mi fa riflettere su quanto una "fede intelligente" sia vicina e conciliabile con la "intelligenza della ragione".

Seguo, nel citare, l'ordine della esposizione del cardinale di Bologna.

 

1. «Dobbiamo riconoscere che il fenomeno di una massiccia integrazione ci ha colti un po' tutti di sorpresa. È stato colto di sorpresa lo Stato... che pare non abbia ancora recuperata la capacità di gestire razionalmente la situazione riconducendola entro le regole irrinunciabili... di una ordinata convivenza civile. E sono state colte di sorpresa anche le comunità cristiane... sprovviste sinora di una visione non astratta, non settoriale... Le generiche esaltazioni della solidarietà e del primato della carità evangelica... si dimostrano più bene intenzionate che utili quando non si confrontano davvero con la complessità del problema e la ruvidezza della realtà effettuale». Queste, è proprio il caso di dire, sono parole sante. E davvero responsabili.

 

2. «Non è compito della Chiesa come tale di risolvere ogni problema sociale». Più che vero. Ma fa piacere che sia un cardinale ad asserirlo, e che poi sia un alto prelato a ricordare allo Stato quali siano i suoi doveri. Occorre, scrive, che «ci si preoccupi seriamente di salvare l'identità propria della nazione. L'Italia non è una landa deserta senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza una inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente come se non ci fosse un patrimonio di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto».

 

Anche le comunità cristiane «non possono non valutare attentamente i singoli e i diversi gruppi»; ma, alla fin fine, i criteri per ammettere gli immigrati sono di competenza delle autorità civili, e sino a che quei criteri «non possono essere solamente economici e previdenziali», e che «le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono egualmente propizie» ai fini di «una possibile e auspicabile... integrazione». Di nuovo, parole sante. E fa dispiacere dover notare che una lezione come quella impartita dal cardinale di Bologna non ci sia mai o quasi mai arrivata dai nostri politici.

 

Tra l'altro, non ci è mai arrivata dalle nostre cattolicissime Maria Rosa Russo Jervolino quando governava il Viminale, né tantomeno dal ministro Livia Turco che ora risponde al Cardinale che «la legge più severa sull'immigrazione porta il mio nome». Davvero? Entrare clandestinamente in un paese è un reato, così come è un reato rifiutare di fornire le proprie generalità. E la severissima legislazione italiana cosa fa? Fornisce al clandestino anonimo un foglio di via e poi lo rilascia, e così di fatto lo fa entrare e gli consente di sparire. Peccato che il cardinale Biffi non la possa sostituire. Pur essendo anche lui cattolico, farebbe molto meglio di lei.

 

3. Il punto dolente dell'immigrazione è quello dell'immigrazione islamica. Il presule di Bologna lo dichiara senza perifrasi: «Il caso dei musulmani va trattato con una particolare attenzione. Essi hanno... un diritto di famiglia incompatibile con il nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (sino ad ammettere la pratica della poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralistica della vita pubblica... la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede irrinunciabile, anche se a proclamarla e a farla valere aspettano prudentemente di essere diventati preponderanti». Livia Turco si affretta a controbattere così: «Non dimentichiamo tutto ciò che accomuna e non divide le tre grandi religioni, il cristianesimo, l'ebraismo e l'islamismo».

 

In attesa che il ministro Turco  mi ricordi quel che evidentemente io dimentico, mi pregio ricordarle (qualora sia lei a non saperlo) che la parola "Islàm" vuol dire sottomissione, che la parola araba per libertà - "horriayai" - esprime soltanto una situazione di non schiavitù (dal che risulta che il nostro concetto di libertà al positivo è estraneo alla concezione islamica del mondo), e che alla nostra separazione tra chiesa e Stato il musulmano contrappone la concezione dell'"Eddin-Dawa", che vuol dire religione-Stato. Ciò posto, le sarei davvero obbligato se una volta tanto precisasse che razza di cittadino italiano osservante delle leggi italiane risulterebbe dalla "cittadinizzazione" del suddetto islamico. Per ora un gruppettino di studenti islamici delle scuole genovesi ha chiesto che il crocefisso venga eliminato dalle aule, ed è stato subito accontentato. In barba alla vanteria della Turco che le leggi degli immigrati devono sottostare a quelle italiane. A me, laico, del crocefisso non faccio certo un caso capitale. Ma a lei, cattolica, l'episodio non appare un pessimo esordio della integrazione scolastica dell'islamico?

 

Max Weber distingueva tra etica della responsabilità (una moralità che mette in conto le conseguenze delle nostre azioni) e etica dei principii (nella quale la buona intenzione è tutto e il cattivo esito viene ignorato). L'etica della responsabilità è, se si vuole, impura perché è pilotata da un capire, mentre l'etica dei principii è pura, ma per ciò stesso ottusa (non sa, non capisce) e irresponsabile. La chiesa di Giovanni Paolo II ha largamente sposato una etica dei principî. Niente profilattici, anche se quel niente incrementa l'Aids. Niente contraccettivi, anche se quel niente produce un eccesso di centinaia di milioni di bambini destinati a morire di fame. La giustificazione è che provvederà la Provvidenza. In attesa stravince l'imprevidenza. Ben venga, allora, un cardinale che si ricorda dell'etica della responsabilità.

 

Ne sia lodato il Signore.

 

Card. Giacomo Biffi,

Arcivescovo di Bologna

Morto recentemente